L'amico del cuore (2019)

di Gabriela Cowperthwait
USA 2019


 

Il titolo originale è "Our friend". Il titolo italiano al solito ammicca a qualche cosa d'altro. Avrebbero dovuto tradurlo con l'amico di famiglia, però poi avrebbe fatto pensare a qualcosa di mafia?
Il film è diretto da una donna e credo si noti nell'attenzione agli sguardi, alle emozioni, al rapporto con le due bambine, alla musica delicata.
E' un film intenso, tratto da un articolo pubblicato che raccontava la vera storia del giornalista Mat Teague. Una giovane donna, malata di tumore, morirà lasciando marito e due figlie. Una storia straziante come ne capitano molte. Qui l'elemento anomalo è la presenza di questo amico, sempre presente, che negli ultimi mesi di vita della donna si trasferirà lasciando lavoro e fidanzata per stare fisicamente con la famiglia messa a dura prova dalla tragedia della malattia. Il film non è lineare, come usa negli ultimi anni, è un intreccio di passato e presente, partendo dall'incontro dei personaggi, tredici anni prima, per terminare con la separazione dovuta alla morte ai giorni nostri, il film è del 2019.
Due ore che fanno piangere, a tratti sorridere, alle volte fanno sentire il calore e il dramma di una situazione che potrebbe riguardare ciascuno di noi. Detto questo, non è un grande film. E' pasticciato nel suo ricatto della malattia e della presenza di figlie-bambine. Pur riuscendo a scansare gli aspetti più strappalacrime e cercando di creare uan sorta di bolla poetica che avvolge i tre protagonisati più le due bambine, non c'entra il punto. Passa dalla figura del marito, dell'amico, della malata... senza decidersi e senza alla fine riuscire ad approfondire nessuna delle esistenze. Scopriamo la frustrazione di un marito giornalista fallito che troverà la sua missione nel seguire conflitti e tensioni in giro per il mondo, di fatto abbandonando moglie e figlie per mesi; seguiamo l'immobilità di un amico bambinone cresciuto, gentile e divertente, ma che cela un vuoto, o una depressione o non si capisce bene che cosa; infine la malata che, partendo dall'istrionica ragazza energica del passato, si affloscia negli steriotipi da melodramma di malata terminale che scrive lettere-future alle figlie o fa la lista delle cose stravaganti da fare. Forse, per assurdo, il personaggio meno riuscito è proprio la malata. Ed è un peccato, perchè se la sceneggiatura avesse costruito un ritratto più reale di questa ragazza, stroncata nel fiore della sua esistenza dopo anni di malattia, poi la regista forse sarebbe stata in grado di rappresentarlo in modo migliore.
Invece l'intero film vaga da una situazione ad un'altra, senza riuscire a trovare un collante e senza prendere una posizione. L'unico pregio di questo vagare è forse quello di non cadere troppo nel ricatto del melodramma: frammentando e accorciando momenti e storie, non si ha il tempo di fermarsi a cogliere la drammaticità della singola situazione.

Una giovane donna che scopre di essere malata e segue la trafila solita di chemio, sguardi patetici di amici e conoscenti, difficoltà di dare senso alla propria situazione, di inquadrarla all'interno di un passato abbastanza normale e di un presente angosciante, in cui vede le proprie figlie bambine e sa di non poterle conoscere in futuro, quando saranno grandi. In questo contesto l'assurdo della condizione umana urla e vorrebbe venire fuori, vorrebbe essere raccontato, o per lo meno lasciato intuire, invece tutto è messo a sopire, anestetizzato da una normalità (veloce) che normalità non può essere.

E' un film sereno che vorrebbe tranquillizare gli spettatori, facendo versare loro lacrime, non troppo salate e di facile riassorbimento.

Qui l'articolo del 2015 scritto dal Matt Teague su Esquire


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